Il Paradosso di Olbers: perché di notte non è giorno ?

Il matematico tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, nel 1826 si pose una domanda sorprendente:

perché di notte non è giorno ?

è la formulazione del paradosso che, oggi, porta il suo nome.

Può sembrare una domanda assurda e oziosa, eppure ha un fondamento assolutamente ineccepibile. Nel XIX secolo, infatti, la cosmologia moderna era ben lontana dal vedere la luce e la migliore ipotesi a disposizione per il tempo era quella di un universo infinito, esistente da un tempo infinito e, soprattutto, omogeneo ed isotropo. Tutte ipotesi estremamente “forti”, ma sono soprattutto le ultime due,  di omogeneità – ovvero di densità di massa stellare  costante – e isotropia – cioè di distribuzione uniforme in tutte le direzioni – a portare dritto dritto al Paradosso di Olbers.

Keplero (ce ne siamo occupati tempo addietro)  fu il primo a rendersi conto, nel 1610, che in presenza di queste ipotesi il cielo notturno dovrebbe essere perfettamente illuminato a giorno. Se infatti esistessero infinite stelle e queste fossero distribuite uniformemente, ogni regione di volta celeste riceverebbe una quantità di luce tale da renderla comunque illuminata. Si dimostra, infatti, che anche se la densità di massa stellare, cioé la quantità di stelle per unità di spazio del cosmo fosse bassissima, le condizioni di omogeneità e di infinità porterebbero comunque una quantità di luce sufficiente ad illuminare a giorno l’intera volta celeste, anche di notte.

Keplero intuì questo fatto oltre 200 anni prima di Olbers, ma non portò avanti questa intuizione perché confutare l’ipotesi di un universo infinito, creato da un’entità infinitamente potente, lo avrebbe portato ad avere a che fare con la temibile Santa Inquisizione. Troppo recente e terrificante doveva essere la memoria della vicenda che, solo pochi anni prima, vide un altro illustre astronomo, l’italiano Galileo Galilei, costretto ad una precipitosa abiura per aver salva la vita.

Sappiamo benissimo che, di notte, il cielo non è affatto illuminato a giorno e questo fatto comporta due conseguenze importantissime, alla base della cosmologia moderna: non solo l’universo è spazialmente finito, ma lo è anche temporalmente. Fu un astronomo ed astrofisico americano, Edwin Hubble, a risolvere il paradosso ad un secolo dalla sua formulazione. Hubble Scoprì che le onde elettromagnetiche, incluse quelle luminose, provenienti da oggetti del cosmo presentano uno spostamento verso il rosso progressivamente maggiore al crescere della distanza dell’oggetto dalla Terra.

Lo spostamento verso il rosso è dovuto al cosiddetto effetto Doppler, ovvero della variazione di frequenza con la velocità della sorgente. E’ un effetto che tutti abbiamo sperimentato ascoltando veicoli in avvicinamento a velocità sostenuta, come ambulanze o motociclette: quando il veicolo è lontano il suono appare avere frequenza maggiore, per poi calare bruscamente nel momento in cui la sorgente del rumore ci raggiunge e si allontana. Questa legge empirica, nota come Legge di Hubble, ha una conseguenza importantissima: più gli oggetti stellari (stelle, ammassi, galassie) sono distanti e maggiore è la loro velocità di allontanamento dalla Terra.

Ci siamo già occupati di Roberto De Mattei, ed è effettivamente imbarazzante avere un vicepresidente del CNR che sostiene il creazionismo. Ai tempi di Keplero, infatti, l’atto di creazione sottendeva l’infinità del cosmo, spaziale e temporale e, fortunatamente, oggi la Chiesa Cattolica è stata costretta a rivedere questa posizione ammettendo il Big Bang e l’evoluzione cosmica, in linea con le scoperte scientifiche moderne. Come se non bastasse, il cosmologo americano Edward Harrison ha dimostrato che, anche se l’universo non fosse in espansione, sarebbe sufficiente l’ipotesi di esistenza dell’universo da un tempo infinito a rendere l’universo  comunque illuminato a giorno.

Il creazionismo è, quindi, una ipotesi non solo priva di qualsiasi fondamento scientifico, ma anche facilmente smontabile con un briciolo di osservazione. E’ triste dover notare che, a non accorgersi di tutto questo, è proprio una delle figure di spicco del nostro ente di ricerca più prestigioso.

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