Insegnanti in fuga

BrainDrainSi chiama fuga di cervelli o “brain drain”, è il fenomeno sociale che porta le persone con particolari doti a ricorrere all’emigrazione per trovare uno spazio che si addica alle proprie capacità. Ne abbiamo letto in tutte le salse, studenti che terminano il proprio percorso di studi, spesso con il massimo dei voti, e che decidono di “fuggire via”, perché il paese natìo non fornisce adeguate garanzie di sviluppo professionale.
E’ sicuramente un segno di crisi che caratterizza i paesi meno sviluppati, come purtroppo lo è l’Italia. Un fenomeno semplicissimo da descrivere: dottori, ingegneri, dirigenti, studenti con curricula brillanti o con idee geniali fanno le valigie e cercano fortuna all’estero. Non è solamente l’effetto della globalizzazione, per cui in un mondo fortemente interconnesso e facilmente raggiungibile si va a cogliere l’opportunità migliore ovunque essa sia. E’ un vero e proprio segno di crisi.
Segno di crisi talmente importante da essere inizialmente circoscritto a laureandi e laureati, ma che lentamente sta allargandosi alle altre categorie professionali. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un fenomeno nel fenomeno ancor più allarmante: la fuga degli insegnanti.

Va da sé che finché sono gli studenti ad abbandonare il paese, è sicuramente una emorragia significativa per via dello spreco di risorse nella formazione, ormai 1937255_1253469022607_2324039_nininterrotto dall’inizio degli anni 2000. Ma se ad abbandonare l’Italia sono gli insegnanti, allora occorre davvero procedere ad una sterzata vigorosa.
Abbiamo conosciuto Alessandra, giovane insegnante in fuga: dal precariato in Italia ad una carriera in crescita in Germania prima e in Qatar poi.

Una lunga intervista che, in questi tempi prodromici alla nuova riforma Renzi, è davvero da non perdere.

Alessandra, parlaci della tua esperienza come insegnante in Italia.
La mia esperienza di insegnante in Italia è iniziata nel 2012, quando ho partecipato alle selezioni per il famigerato TFA, il Tirocinio Formativo Attivo, ideato sotto il ministro Gelmini e nato per sostituire la SISS, la scuola di formazione per insegnanti istituita nel 2000 e interrotta bruscamente nel 2008. Per chi non lo sapesse, l’ultimo concorso abilitante per insegnanti nel nostro paese si è tenuto nel 1999. Da allora caos e direttive continuamente mutanti hanno bloccato di fatto il processo di formazione e assunzione degli insegnanti.
In ogni caso, pur con una enorme dose di scetticismo, nel 2012 partecipo alle selezioni per accedere al nuovo corso abilitante, il TFA, appunto, e, con mia grande sorpresa, passo tutte e tre le prove. Dico con mia grande sorpresa perchè già la selezione fu un’esperienza sconfortante: numeri di partecipanti grotteschi (150 mila!), prove metodologicamente e contenutisticamente errate, domande sbagliate, disparità di trattamento da ateneo ad ateneo…insomma, un autentico Far West. Infatti i ricorsi furono moltissimi. Alla fine, su 150 mila partecipanti e 20 mila posti disponibili, passammo in 11 mila. Il costo che ogni aspirante docente ha dovuto sostenere si aggira sui 3000 euro. Con quella che alcuni potrebbero ritenere una buona dose di fortuna, l’anno accademico successivo ho trovato ben 2 scuole in cui lavorare su Roma, la mia citta’: un istituto parificato (una scuola privata non confessionale, per intenderci), dove ho insegnato le mie materie (lettere) e una scuola pubblica dove invece sono stata chiamata per insegnare nella cosiddetta “ora alternativa”, ossia quell’ora settimanale in cui i ragazzi che scelgono di non frequentare l’ora di IRC (insegnamento della religione cattolica) hanno diritto di non fare nulla.
Francamente, tra le due esperienze, quella nel diplomificio privato, e quella nella totale anarchia dell’ora alternativa, non saprei dirti qule io abbia trovato più sconfortante. Sono state due esperienze che mi hanno letteralmente terrorizzata. 
Il diplomificio – tale era e tale è ancora oggi – ha provocato in me frustrazione come insegnante, rabbia come cittadina, e angoscia per i ragazzi. Io, come insegnante, percepivo meno di 9 euro l’ora, avevo due cattedre di lettere (un terzo ragioneria e in un quinto alberghiero), e quindi 12 ore complessive. A fine mese la segretaria mi metteva in busta chiusa circa 350 euro, cash, ovviamente. A parte il trattamento economico umiliante, la cosa peggiore è stato il rendermi inesorabilmente conto di dove mi trovavo: una scuola dove, a meno che uno studente non tirasse un banco addosso ad un altro studente o ad un insegnante, tutto era permesso, in primis non aprire libro, ovviamente. Ogni insufficienza in sede di scrutinio si tramutava magicamente in un 6 per ordine del preside, proprietario dell’istituto: un uomo detestabile e arrogante che, con un Rolex grande come un televisore al polso, regolarmente chiudeva noi insegnanti nel suo studio e ci arringava sull’importanza del nostro ruolo e di come noi dovessimo “aiutare” questi ragazzi, che erano stati “rigettati” dalla scuola pubblica e che qui avevano la loro ultima chance. Con la mano sul cuore ti dico che avrei tanto voluto che quei ragazzi avessero un’ultima chance, avrei voluto aiutarli a comprendere l’importanza di divenire culturalmente autonomi, non manipolabili, consapevoli…non necessariamente dei geni o dei “secchioni”, come si diceva ai miei tempi, ma per lo meno che imparassero che ogni azione ha una reazione, e che non è vero che con l’inganno e con il denaro si può ottenere tutto. Purtroppo, invece, questa è la lezione che hanno imparato frequentando quel luogo, che ho pudore a definire scuola e che come cittadina italiana mi domando come possa essere ancora funzionante, visto che è un palese schiaffo alla legalità e alla buona fede di alcuni genitori che probabilmente sceglievano di pagare una retta di 600 euro mensili perché abbindolati dalle false promesse dello slogan: dare al proprio figlio un’istruzione a misura d’uomo. E tutti promossi, naturalmente.
Ti devo raccontare della scuola pubblica? Io non mi rassegno a fare la “domatrice di circo” (a questo si può ridurre molto facilmente il ruolo di insegnante di ora alternativa) e ho cercato di riempire di contenuti un progetto che è solo un contenitore. Non vi sono programmi ministeriali per questo “insegnamento”, ci sono solo vaghe direttive, ma la scelta del programma è lasciata all’inventiva dei singoli istituti, così ti può andar bene, e ti può andar male – come studente intendo, perchè alla fine sono sempre gli studenti che pagano le scelte scellerate di governanti miopi, non solo gli insegnanti. Diciamolo chiaramente: l’ora alternativa, così come è ideata in Italia, è una truffa ai danni degli utenti, genitori e studenti, è un contentino accordato alla parte laica del paese, ma se non le si dà un nome (etica? La vecchia educazione civica?) e un programma con degli insegnanti appositamente formati per svolgerlo, resta una falsa opzione. Un’idea, intanto, sarebbe stata avere delle aule per questo insegnamento. Io nella mia scuola non avevo neanche un’aula. Ogni giorno raccoglievo i ragazzi e dovevo vagabondare per l’istituto chiedendo alle bidelle se vi fossero aulee libere. Puoi bene immaginare che 15-20 minuti se ne andavano nel vagabondaggio. Le mie colleghe erano chi di storia dell’arte, chi di chimica, chi di sostegno. Non so cosa facessero nella loro ora con i loro ragazzi, io ho provato a fare dei percorsi dedicati alla cittadinanza e alla Costituzione, ai diritti civili, alla Shoah, alle Foibe e a questioni di attualità come l’immigrazione, il razzismo e l’omofobia.
Ed è stato così che mi sono resa conto che la scuola deve assumersi l’oneroso compito di trattare questi temi in maniera programmatica, qualificata, adeguata, e non a seconda del buon cuore di un insegnante particolarmente motivato o sensibile a certe tematiche. Non ti riporto gli epiteti che ho sentito lanciare ai ragazzi quando abbiamo affrontato il tema dell’immigrazione, e per quanto riguarda la transomofobia, beh, ti dico solo che alcuni ragazzi si sono rifiutati di guardare il film proposto – un film molto leggero, per altro, che tratta con vena comica la difficoltà di fare coming out in famiglia. Insulti ed espressioni come “fanno schifo” sono stati il leit motiv con cui il film è stato accolto. Eccezion fatta per le ragazze, che in tutte le classi, a onor del vero, hanno reagito con grande compostezza, dimostrando più maturità e apertura mentale dei loro coetanei maschi. Ma questa è cosa nota.

E poi cosa è successo, come hai maturato la decisione di abbandonare il paese e di emigrare in Germania?


La mia vicenda veramente gira al contrario: io ho iniziato ad insegnare in Germania, e poi sono rientrata in Italia dopo aver “vinto” il concorso. Tutt’oggi mi domando se sia stato un bene, però mi rispondo che forse in fondo lo è stato: ho dovuto lasciare la Germania, sì, ed è stato un grande dolore, però ho acquisito l’abilitazione, e le abilitazioni all’insegnamento ormai sono riconosciute in tutta Europa. Attraverso trafile diverse da paese a paese, che possono essere più o meno complesse, è possibile vedersi riconosciuto il proprio titolo ovunque. Io ad esempio ho ottenuto il QTS, il Qualified Teacher Status per la Gran Bretagna, e posso dunque fare richiesta in qualunque scuola del Regno Unito, senza bisogno di dover passare per un’ulteriore periodo di formazione.
Tornando alla tua domanda, non ho paura di dire che alla Germania sono debitrice di molto, forse di tutto, in termini di dignità professionale e quindi umana. 
Nel 2010, dopo una laurea triennale e una magistrale in lettere classiche, ero nell’inferno dei laureati italiani in cerca di occupazione. Ho tentato varie strade: editoria, traduzione, correzione di bozze…se riuscivo a lavorare, era a titolo gratuito, col solito ricatto psicologico del tipo: “ma poi, se sei brava, se ti impegni, se piaci, se conosci qualcuno, magari ti offrono un contratto vero”. Avevo pure la partita IVA, per ogni evenienza. Comunque, dall’inferno mi ha tirato il programma Comenius del Consiglio Europeo (Lifelong Learning Programme). Anche lì, 2500 domande, 120 i posti assegnati. I sommersi e i salvati. Sono stata mandata in Germania, una città di 250 mila persone di cui – da non appassionata di calcio – non avevo mai sentito parlare: Mönchengladbach. Ho guardato su Google Maps per sapere dove fosse! Vicino Düsseldorf. Ti dico senza un filo di vergogna, ma con un po’ di commiserazione per me stessa, questo sì, che il giorno che ricevetti la mail dal Gymnasium tedesco in cui mi si diceva che sarei stata la loro nuova assistente Comenius per quell’anno, ero da sola in casa, con la mia gatta, e ho gridato e pianto di gioia. Era la fine di un incubo, una porta che si apriva sull’ignoto, certo, ma un ignoto che io potevo riempire con le mie capacità, determinazione, e immensa voglia di dare il meglio di me. Qui, cosa avevo? Il nulla. Non sapevo più nenache come e dove cercarlo un lavoro. 
Quindi ho impacchettato le mie cose, preso la mia gatta e sono partita in macchina alla volta della Germania, con il cuore in gola, un livello di tedesco elementare e tanti interrogativi, ma era meglio di quel nulla pieno di angoscia e frustrazione che mi lasciavo alle spalle. In macchina ascoltavo Good Bye Maliconia, di Caparezza e Hadley, che sembrava scritta per me, e non avevo alcun rimpianto, se non quello di lasciare i miei genitori, che hanno lavorato una vita intera, che mi hanno concesso tutta l’istruzione di cui ho avuto voglia e bisogno, convinti di darmi un futuro più “facile” di quello che ebbero loro, e che ancora oggi stentano a capire cosa sia successo in questo paese, e perché qui non ci sia posto per quelli come me. 
Cosa ho trovato in Germania? Il rispetto. E’ la prima cosa che mi viene in mente: il rispetto per le competenze e per la persona. Io potevo insegnare latino, greco e filosofia antica ai loro ragazzi, e i colleghi tedeschi si mostrarono estasiati delle mie competenze. Dentro e fuori l’istituto scolastico, ho ricevuto un’accoglienza che non potrò mai descrivere adeguatamente. Supporto professionale e umano non mi sono mai mancati, e sebbene la retribuzione fissata dall’Europa non fosse certo lauta (26 euro al giorno, se non sbaglio), ho trascorso un anno meraviglioso: colleghi e padroni di casa hanno provveduto a farmi sentire sempre a mio agio ed ho avuto la possibilità di imparare moltissimo e di provare a me stessa che allora forse qualcosa valevo. Infatti, già prima che mi fosse scaduto l’accordo europeo, avevo trovato lavoro come insegnante di italiano nelle Volkshochschule locali (scuole per la formazione di adulti). Lavoro che poi ho dovuto lasciare per tornare in Italia e frequentare il TFA.
La Germania non è perfetta, ma in base alla mia esperienza si respira un clima rassicurante, in cui lo Stato e le istituzioni sono percepite come amiche del cittadino e non come enti astratti che cercano solo di stritolarti. Gli insegnanti neoassunti prendono circa 2500 euro, e la figura del professore è rispettata e benvoluta dalla collettività, non derisa e vessata come in Italia.
So che molti storceranno la bocca di fronte a questo mio elogio apparentemente sperticato della Germania. Posso solo dire che bisogna provarle certe cose per capire, non pretendo che chi non ha mai lavorato all’estero, o lo ha fatto solo facendo il lavapiatti a Londra, possa capire. 


Poi l’opportunità in Qatar, ce la vuoi raccontare?

Viviamo in una società estremamente competitiva e occorre innanzitutto formazione ed istruzione per poter aprirsi più strade possibili: questa è mia una radicata consapevolezza, così, dopo le due lauree (insisto sul plurale perché è così che vengono considerate all’estero), ho studiato per ottenere il certificato Ditals II per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri e il Celta della Cambridge University, per insegnare inglese agli stranieri. Dopo la Germania e l’anno e mezzo di formazione e insegnamento in Italia, sono partita per il Qatar, dove insegno inglese presso un grande istituto di lingua con sedi in tutto il mondo. 
In Qatar sono finita più per caso che per scelta: il mio compagno, inglese, ha ricevuto un’offerta di lavoro di diversi mesi e avevamo già pensato che se fosse successo sarei andata anche io. Certo, non avrei immaginato che sarebbe stato così facile trovare lavoro. L’ho raggiunto per venti giorni l’estate scorsa per guardarmi in giro e provare a valutare le possibilità lavorative sul posto: ho fatto un colloquio, e avevo già un lavoro. Sono tornata in Italia, ho sistemato le mie cose, e a settembre ero di nuovo a Doha.
Sono felice di aver avuto la possibilità di conoscere un paese e una cultura alla quale credo sarei rimasta estranea altrimenti tutta la vita. Io avevo già vissuto in precedenza anche in Australia, ad esempio, ma l’Australia è più lontana dall’Europa solo geograficamente. Il Qatar, con i paesi del Golfo, sono invece un’autentica avventura culturale.
Ero intimidita, inizialmente, lo confesso. Persino il pensiero dei semplici controlli all’aeroporto mi mettevano ansia. Ora lavoro in una scuola il cui proprietario è qatarino, il socio iracheno, la direttrice americana, la manager kazaka, i colleghi vengono dal Sud Africa, dal Pakistan, dell’India, della Gran Bretagna… insomma, un mix di culture davvero eterogeneo. Gli studenti sono prevalentemente arabi o di paese musulmani (siriani, libici, sudanesi, nigeriani, qatarini, egiziani, marocchini, etc..). Quello che più mi ha colpito qui è stata la voglia di raccontarsi che ho riscontrato nelle persone. Una volta abbattuta la barriera di iniziale circospezione, la gente del posto ha una gran voglia di raccontare come vive, di dirti della loro famiglia (sempre così numerosa!), di cosa gli piace, di cosa sa dell’Occidente. E quello che vedo è che, sebbene le distanze geografiche siano brevi, a separarci c’è un mare di equivoci e fraintendimenti. C’è un vero muro di ignoranza reciproca: sappiamo solo quello che la televisione ci fa sapere l’uno dell’altro – anzi forse loro, per forza di cose, perché noi siamo “l’Occidente”, sono meglio informati su di noi di quanto noi lo siamo di loro -, e con questi reciproci fraintendimenti si va avanti con indolenza, pensando di sapere tutto e perdendo la curiosità. Io ho ritrovato la curiosità, una curiosità che non sapevo neanche di avere verso una cultura veramente diversa dalla nostra, e ho trovato in me la comprensione,nel senso etimologico del termine Mi rendo conto di quanto sia rischioso, con le immagini che corrono sui TG quotidianamente, parlare di comprensione: rischio di essere incompresa io qui in Italia. Però ho conosciuto persone gentili, educate fino all’eccesso, piene di orgoglio per quello che il loro paese in pochissimi anni è riuscito a fare e, sebbene vi siano ancora molti chiaroscuri, specie sulla questione dei diritti umani, sono convinta che paesi come il Qatar o gli Emirati Arabi, rivestiranno un ruolo fondamentale per instaurare un serio dialogo con il Medio Oriente e per elevare lo standard dei diritti umani in tutto il Golfo. Il Qatar è un paese vibrante, dove si avverte l’entusiasmo della crescita, la voglia di dimostrare di essere capaci, all’altezza delle aspettative, e mi riferisco soprattutto al Mondiale di calcio del 2022, che si giocherà a Doha. Potrei dire che il Qatar è già pronto oggi ad ospitare la grande kermesse sportiva, che avrà naturalmente anche dei forti risvolti culturali. Moltissimi occidentali si riverseranno in questo deserto di sabbia, dove nel giro di 20 anni è sorta una intera città all’avanguardia, e sono convinta che rimarranno piacevolmente stupiti.

Avendo maturato un’esperienza internazionale, quali sono gli aspetti di maggior contrasto rispetto al periodo trascorso in Italia?
Credo che, fra le righe, ho già risposto a questa domanda. La valorizzazione del merito, ma sul serio, non perché lo dice una nuova direttiva ministeriale, la sensazione di avere una prospettiva di carriera e crescita professionale, la consapevolezza che l’impegno paga, la gratificazione economica, un contesto educativo non penalizzato da strutture fatiscenti, che da sole illustrano meglio di mille parole la reale importanza attribuita alla scuola da quella società.



In cosa, secondo te, il sistema italiano è più carente?
Il sistema italiano ha voluto modernizzarsi, recependo finalmente le direttive europee in fatto di formazione e selezione del personale docente, con 10 o anche 15 anni di ritardo. Ma lo ha fatto trapiantando un sistema nato altrove, in particolare nella cultura anglosassone, su un humus che non era compatibile con esso, perché ha una storia diversa. Inoltre, ha spesso recepito le direttive europee svuotandole dei contenuti davvero innovativi e forti culturalmente, che avrebbero generato un autentico cambio di mentalità, facendone un guscio vuoto, al cui interno sono rimasti i vecchi, stanchi, annosi problemi di sempre. Pensiamo all’informatizzazione della didattica e alla formazione dei docenti. Non è possibile avere in classe insegnanti che pretendono di parlare, di comunicare con i quattordicenni di oggi, quando non sono in grado magari neanche di inviare una mail. Le competenze dei docenti vanno monitorate e aggiornate continuamente, non puoi pensare che, perché hai preso una laurea 25 anni, oggi tu possa continuare a insegnare le stesse cose, nello stesso modo in cui lo facevi allora. Forse questo andava bene il secolo scorso, ma oggi la conoscenza, e la sua veicolazione, mutano in maniera estremamente veloce. Però a me è parso che l’idea dell’aggiornamento venga vissuto dal corpo docente spesso più come un affronto (forse è una parola un po’ forte, ma rende bene l’idea) che come un supporto, e magari non è neanche del tutto imputabile agli insegnanti, ma al modo in cui tale percorso viene proposto dai diversi governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia. In fondo, la questione rimane una: il docente va riabilitato innanzitutto dal punto di vista sociale, va riconosciuto il suo ruolo fondante di veicoloatore non solo di conoscenze e competenze, ma di valori. E tale riconoscimento non può che passare da una valorizzazione economica, altrimenti si tratta di una pacca sulla spalla, che non fa che umiliare ulteriormente una figura divenuta fragile all’interno della piramide sociale.



In una intervista pubblicata tempo addietro, il Dottor Claudio Gerbino sostiene che lo stato della scuola pubblica in Italia sia frutto di un progetto ben preciso, sei d’accordo con questa affermazione?

Non sono una “complottista”, semplicemente perché le teorie dei complotti, che pretendono di spiegare fenomeni complessi, finiscono spesso per complicare anziché semplificare. Io credo che lo stato di cose della nostra scuola sia dovuto più ad una banale miopia politica, che ad un piano preciso. O forse le due cose insieme: è chiaro che, come sostiene il prof. Gerbino, un cittadino ignorante è più facile da gestire, questo lo si sa da sempre, e lo sanno anche i nostri governanti, ma se vogliamo guardare al concreto delle cose, io vedo che l’incompetenza degli agenti politici che si sono succeduti da 20 anni a questa parte, la rapace ingordigia dei sindacati, e l’indolenza del corpo docente siano stati di per sé fattori sufficienti a farci arrivare dove siamo. Certo, possiamo parlare di un sistema di informazione scaduto, che ci relega agli ultimi posti dei paesi OCSE, del fatto che gli italiani siano tra i lettori più pigri del mondo cosiddetto evoluto, degli esempi di successo offerti ai nostri ragazzi, che si domandano quindi perché dovrebbero sudare su una scrivania per anni, quando basta approdare in TV per una serata, e puoi cominciare a firmare autografi tronfio della tua terza elementare… Di elementi scatenanti ce ne sono moltissimi, e risalire ad una causa unica mi pare irrazionale e storicamente sbagliato. L’eurethès è una figura che aiuta i semplici, ma se si è in grado di gestire situazioni complesse, come i nostri politici dovrebbero essere in grado di fare, apparirebbe chiaro che il decadimento dell’istituzione scolastica e della sua funzione sociale è un mostro a molte teste.

Cosa diresti a chi intendesse seguire le tue orme, e tentare un’esperienza di insegnamento internazionale?
Di imparare l’inglese come la propria lingua madre, più la lingua del paese dove si vorrebbe tentare l’approdo, e andare. Ché non è impossibile, anzi, è più facile di quanto si creda mentre ci si dispera ascoltando proclami governativi sulla “buona scuola”. Mi rendo conto che non è facile se si ha una famiglia, ma io vedo ogni giorno padri e madri che, lontano dai propri cari, lottano per garantire un futuro migliore ai propri figli in un altro paese. Poi, che ti devo dire? Probabilmente l’indole in queste cose conta più di ogni contingenza particolare: io mi sento a casa ovunque, soprattutto se parliamo di Europa. Ciò che mi terrorizza piuttosto è la stasi, il cambiamento è vita.

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