Abbiamo bisogno di un nemico? La analisi di un pool di psicologi.

E’ indubbio che la strategia elettorale che ha portato all’ascesa della Lega sia vincente. Incentrata sul respingimento dei migranti perché questi rappresentano una minaccia per la sicurezza del paese. I dati su sicurezza ed immigrazione smentiscono, ma i consensi crescono. La domanda delle domande è come mai questa strategia, a dispetto della realtà dei fatti, funziona?

In queste ore ho ricevuto un interessante capitolo tratto da un libro scritto a più mani nel 1991, a cura di un pool di psicologi  Kast, Wallraff, Clauß, Cierpka e SeifertBrauchen wir Feindbilder?”. Titolo decisamente  attuale: Abbiamo bisogno di immagini del nemico ?

Il capitolo è apparso in prima edizione nel 1995, a cura della Herder di Friburgo e verrrà pubblicato ad ottobre prossimo in italiano da KoinèCentro Interdisciplinare di Psicologia e Scienze dell’Educazione all’interno di un opera più ampia della psicologa Verena Kast, con il titolo Cambiare e ritrovarsi .

Nell’edizione italiana  l’argomento dei “nemici da combattere” è solamente una parte, essendo collocato nel  tema più ampio dei cambiamenti che subiamo col passare del tempo. Noi cambiamo non solo  in termini di ‘età anagrafica, ma anche, e soprattutto, nella percezione del sé e nelle nostre dinamiche interiori. Questi cambiamenti necessitano  della accettazione di un sé in continua mutazione, anche nelle parti “oscure” che non apprezziamo, che tendiamo a rifiutare e  a proiettare all’esterno di noi, sugli estranei.

Il capitolo esplora un aspetto di questo mutamento,  esaminando dal punto di vista della psicologia clinica il processo di “creazione del nemico” attraverso meccanismi di costruzione di una immagine ostile dell’altro, o di un gruppo di altri. Un processo complesso ed articolato che trae origine  innanzitutto dal pregiudizio, cioè sul giudizio dato apriori, a prescindere dal dato reale, per poi radicarsi in forma più o meno esplicita di odio.

Secondo il testo, questo processo è sempre basato sulle differenze osservate o percepite, ad esempio l’estensione di alcuni giudizi generici sui “giovani d’oggi” a volte troppo pigri, a volte troppo scalmanati e così via in una serie di presunti eccessi. Lo stesso accade per quelli che il testo definisce “gruppi marginali” come gli zingari che “fanno quello che vogliono” e “non hanno voglia di lavorare”.

Estraneità ed ostilità sono due fattori autoalimentanti e, spesso, sconfinanti nell’odio. L’immagine del nemico e dei sentimenti ostili che proviamo verso di lui ha la caratteristica di essere “contagiosa”, ovvero che tanto maggiore è la nostra percezione deglie elementi che rendono l’altro un “nemico”, tanto più facilmente questi vengono assegnati a gruppi sempre più ampi di persone.

Nello stesso testo viene fatto l’esempio degli immigrati, visti “con belle camicie” (l’equivalente svizzero del telefonino nel nostro paese), che vengono a rubarci il lavoro. Ben presto queste motivazioni di ostilità vengono trasferite anche a gruppi differenti di persone, come accade ad esempio in Italia con i “radical chic”.

Quando proviamo un sentimento ostile, sottolineano gli autori, ne cerchiamo conferme attraverso altre persone che provano sentimenti analoghi per costruire una giustificazione alla nostra ostilità. Il punto chiave di questo comportamento è che avendo assegnato l’etichetta di “cattivo” a qualcuno, colui che prova odio si pone automaticamente nella condizione di “buono”, arrogandosi diritti che non ha, come ad esempio di emarginare i “cattivi”, privandoli dei mezzi di sostentamento o, come è accaduto in Italia con l’arresto indebito dei migranti sulla nave Diciotti.

Il testo analizza l’assegnazione dell’etichetta di “nemico” in termini proiettivi: gli autori adottano la teoria dell’ Ombra di Karl Gustav Jung, quella parte di noi stessi costituita da valori e comportamenti che rifiutiamo. Ad esempio se viviamo come negativo un certo comportamento o vizio, come ad esempio la pigrizia, troveremo il modo di proiettarlo su un elemento esterno, persona o gruppo di persone. Si badi bene, questo processo di proiezione ha come materia sentimenti e stati d’animo che vorremmo concederci di provare e che invece rifiutiamo.

Un esempio classico, riportato nel libro, è l’ostilità che gli anziani provavano verso “i giovani di oggi”, nella Svizzera dell’epoca in cui è stato scritto (1991). Questa ostilità aveva le origini proprio nella proiezione di quel sentimento di rifiuto della libertà individuale, spesso manifestata senza troppe remore, che gli anziani avrebbero voluto ma che non hanno potuto avere.

Le persone sentono la propria “Ombra”, la rifiutano e la proiettano su “altri”, che combattono proprio a causa del rifiuto dei propri meccanismi interni. E’ il processo ben noto in psicologia, detto di proiezione.

Ma perché proiettiamo? Perché la costruzione di una immagine del nemico è funzionale alla stabilizzazione dell’autostima, soprattutto quando abbiamo una percezione del nostro “noi” fragile, affermano gli autori. Quando poi è un intero popolo a non avere una buona sicurezza di sé, allora il processo di proiezione si estende alla svalutazione di forme di vita straniere e ad immagini collettive del nemico, come è il caso dei migranti in Italia. Così, mentre i dati  smentiscono l’emergenza invasione, ormai cessata da diverso tempo,   questi restano ignorati mentre il meccanismo che fomenta l’odio è sempre comunque forte.

Gli autori scrivono chiaramente che la creazione del nemico è alimentata dalla paura: per consolidare la nostra autostima ripetiamo continuamente qeusto processo di identificazione di un elemento estraneo al nostro modo di pensare e di vivere, assegnazione dell’etichetta di nemico, produzione di atti violenti e aggressivi (che siano anche solo verbali, non ne cambia la sostanza). Ma in realtà tutto questo nasce per “dissimulare i problemi”, ed è importante osservare che, allo scopo, le immagini del nemico sono sempre astratte, stereotipate e ingiuste. Ingiuste non in senso morale, ma proprio in senso tecnico: basate su conclusioni completamente arbitrarie e non supportate da fatti reali.

Pur se il testo è  del 1991, merita davvero riflessione il fatto che in Italia il meccanismo di odio generato dalla paura sia stato rinforzato proprio attraverso una campagna mediatica fondata sulla stessa paura e su atti simbolicamente aggressivi, come diverso tempo fa accadde con le ruspe di Salvini. E che, in termini di consensi, abbia funzionato. E’ un processo sapientemente sfruttato dalla Lega nell’arco del tempo: prima, quando la Lega era locale al nord, con i terroni, poi con gli zingari e i migranti. Cambia solo la scala del “nemico”, ma il processo è lo stesso.

Come tutte le situazioni complesse e foriere di scontro, è inevitabile che portino ad una risoluzione, per drammatica che sia. Uno spiraglio viene dagli autori, che sottolineano come il processo di creazione di immagini ostili sia funzionale a farci porre domande su noi stessi. Ed è proprio da qui che dobbiamo ripartire: anche questo, in definitiva, è un passaggio di crescita culturale del nostro paese.

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