Perché si lasciano. La patologia del legame nelle coppie che si separano

Quando si parla di separazione la prima cosa che viene in mente è l’avvocato e, per estensione, la disciplina della giurisprudenza. Eppure, da decenni, ad occuparsi di studiare le dinamiche delle relazioni di coppia e della loro dissoluzione, nonché gli effetti di questi eventi sulle persone, frequentemente dimenticata, è la psicologia.

Perché e in cosa è importante la psicologia nel trattare questo tema? La separazione di una coppia rappresenta un evento di grande impatto nella vita degli individui coinvolti, che può generare una vasta gamma di emozioni e reazioni psicologiche. La psicologia si occupa di studiare le dinamiche delle relazioni di coppia e la loro dissoluzione, al fine di comprendere le cause e i fattori che influenzano la separazione e di aiutare le persone a gestire il processo di rottura.

Uno dei principali temi psicologici legati alla separazione è il lutto. La rottura di una relazione rappresenta una perdita significativa, che può generare un senso di vuoto, di tristezza e di disorientamento. Il lutto passa per diverse fasi, come la negazione, la rabbia, la tristezza e l’accettazione, che possono variare in durata e intensità a seconda delle circostanze e della personalità degli individui. La psicologia fornisce strumenti per affrontare il lutto in modo sano ed efficace, attraverso tecniche di sostegno emotivo, di elaborazione del dolore e di ricostruzione dell’identità.

Un altro tema psicologico legato alla separazione è la comunicazione. La rottura di una relazione richiede, troppo spesso solo in linea di principio, una comunicazione chiara e rispettosa tra i partner, al fine di gestire le emozioni e gli aspetti pratici della separazione. Anche su questo fronte, la psicologia si occupa di studiare le dinamiche comunicative all’interno delle coppie e di fornire strumenti per migliorare la comunicazione durante il processo di rottura.

Altro importante campo di studio della psicologia in materia di separazione è lo studio delle cause all’origine della separazione stessa e i fattori che possono influenzare la decisione di separarsi. Un terreno complesso in cui giocano, spesso in contrasto, fattori individuali, come la personalità, le esperienze passate e le aspettative sulla relazione, e fattori relazionali, come la comunicazione, la gestione dei conflitti, la compatibilità e, non ultima, l’attrazione sessuale. Il ruolo dello psicologo è di contribuire ad una maggior consapevolezza ed elaborazione di questi fattori, per aiutare le persone a prendere decisioni informate riguardo alla relazione e a evitare situazioni di sofferenza e di conflitto.

Ancora, la psicologia si occupa anche degli effetti della separazione sulla salute mentale e fisica degli individui coinvolti. La rottura di una relazione può generare disturbi emotivi come ansia, depressione, disturbi alimentari e disturbi del sonno. La psicologia fornisce strumenti per gestire questi disturbi, attraverso tecniche di psicoterapia, di sostegno emotivo e di autogestione.

Da non tralasciare, ancora, l’importante ruolo della psicologia nello studio delle conseguenze sui figli delle coppie separate. A soffrire sono, purtroppo, anche e soprattutto i figli la cui separazione dei genitori può generare ansia, depressione, problemi comportamentali e problemi scolastici nei bambini e negli adolescenti. Non solo di supporto alle coppie che si spearano, quindi, lo psicologo fornisce strumenti per i figli a gestire la separazione dei genitori, attraverso il supporto emotivo, la terapia familiare e la consulenza scolastica.

Tutti questi temi vengono toccati dall’interessante libro del Dott. Claudio Gerbino, psicologo e psicoterapeuta, direttore ed editore di KOINÈ – Centro Interdisciplinare di Psicologia e Scienze dell’Educazione. Il libro è indirizzato ai professionisti che lavorano con coppie e famiglie e anche a coloro che vogliono comprendere i motivi profondi per cui una coppia si separa, ma è raccomandabile e fruibile anche dalla platea dei non addetti ai lavori.

Il testo invita a guardare oltre le spiegazioni razionali comunemente addotte come “incompatibilità di carattere” o “non era la persona giusta”, e a indagare le dinamiche che portano due persone a scegliere di stare insieme, ma poi a separarsi. L’autore invita anche a riflettere sulla patologia del legame, che impedisce la possibilità di creare un legame profondo e duraturo. Secondo l’autore, l’impossibilità di creare un legame profondo è il denominatore comune in tutte le esperienze di separazione. L’obiettivo non dovrebbe essere quello di avere un matrimonio indissolubile, ma di evitare di ripetere esperienze dolorose come comportamenti ossessivi.

Il Dott. Gerbino, partendo dalla formula di rito “Finche morte non vi separi”, guida il professionista, ma anche il lettore comune, attraverso un dettagliato ed articolato percorso che fa luce sui diversi aspetti cardine del doloroso processo della separazione. Un testo ricco di strumenti di lavoro per i professionisti e di riflessione per i non addetti ai lavori, ne citiamo uno per tutti perché sarebbe davvero impossibile essere esaustivi: le ricerche sulla relazione tra costellazione familiare (la posizione di nascita della coppia) e la probabilità dell’evento di separazione, il tutto chiaramente corredato dalla ricerca in materia.

Il libro esplora l’illusione dell’amore eterno e si concentra sulla dinamica delle relazioni di coppia per poi proseguire in un viaggio attraverso tappe fondanti nel processo di gestire con consapevolezza la separazione. Si inizia dall’infanzia e dalle prime esperienze di relazione, per poi approfondire il bisogno umano di un amore “per sempre”. Si analizzano poi i motivi che portano le coppie a separarsi, con un occhio particolare al comune denominatore che si riscontra in molti casi. Tra le ragioni più comuni troviamo l’insoddisfazione sessuale, la mancanza di autostima e il desiderio di trovare una persona che ci comprenda veramente. Inoltre, si analizzano le dinamiche di alcune tipologie di coppia, come quelle in cui l’uomo è geloso dei figli o quelle in cui la donna ha difficoltà a trovare un partner. Si parla anche dell’importanza del corpo e della sessualità nella relazione di coppia, e della necessità di approfondire questi aspetti per mantenere vivo il desiderio e l’amore. Il libro è rivolto non solo a chi lavora con coppie e famiglie, ma anche a coloro che hanno vissuto una separazione o che vogliono approfondire la propria vita di coppia. Si analizzano infatti i casi di genitori separati con figli angosciati, e si cerca di offrire soluzioni per affrontare il dolore derivato dalla separazione.

Perché si lasciano. La patologia del legame nelle coppie che si separano, è un libro che rappresenta un importanto contributo per esplorare in modo approfondito i meccanismi che regolano le relazioni di coppia, con l’obiettivo di aiutare le persone a costruire relazioni più sane e durature.

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Mockumentary: il genere comico che fa riflettere su bufale e disinformazione

Si chiamano mockumentary, mix esplosivo della parola mock (arraffazzonare) e documentary (documentario, appunto) e, almeno originariamente, erano intesi come film o programmi televisivi che descrivono eventi immaginari, presentati tuttavia come documentari.
Genere poco diffuso in Italia, è basato su  produzioni  spesso utilizzate per analizzare o commentare eventi e questioni attuali utilizzando un’ambientazione fittizia, talvolta con l’intenzione di porre i documentari “seri” in forma di parodia. I mockumentary sono solitamente comici e rappresentano il controaltare degli pseudo-documentari, i loro equivalenti drammatici. Genere affine al docudrama, che presenta un mix di tecniche narrative drammatiche e ambientazioni combinate con elementi documentaristici per rappresentare eventi reali e alla  docufiction, un genere in cui i documentari sono contaminati da elementi di finzione.
I mockumentary sono storicamente presentati come documentari storici, con tanto di testimonial, talvolta veri, talvolta inventati di eventi passati, alla stregua del cinéma vérité, composto in modo tale da seguire lo sviluppo di persone (reali) e personaggi (inventati). Hanno fatto la loro prima comparsa negli  anni ’50, la prima epoca utile dove i filmati d’archivio sono stati disponibili al montaggio. Il primo storico esempio fu un breve pezzo sulla “Swiss Spaghetti Harvest“,  apparso orgiginariamente come uno scherzo del pesce d’aprile nel programma televisivo britannico Panorama nel 1957.
Ma è solo negli anni ’60 che il termine “mockumentary” fa la sua comparsa ufficiale, per poi divenire  popolare a metà degli anni ’80 quando il regista   Rob Reiner lo ha usato nelle interviste per descrivere il suo film This Is Spinal Tap.
In Italia, in forma assolutamente parodistica ma non con le stesse intenzioni di satira sociale, conosciamo benissimo le imitazioni di Neri Marcoré di Alberto Angela, nonché la spassosissima Vulvia di Corrado Guzzanti, e i suoi ‘mbuti.
Questo, almeno, fino alla comparsa dei Social Network. Che segnano a tutti gli effetti un’epoca storica: l’avvento di Ugo Qualunque, maschio o femmina che sia, che dispensa le sue granitiche certezze su un reale assolutamente inconsistente. L’idea di dare voce a questa singolarità qualsiasi è di Diane Morgan attrice inglese che inventa Philomena Cunk, intervistatrice e commentatrice di attualità estremamente ottusa e male informata. Il personaggio è apparso per la prima volta in un segmento regolare su Weekly Wipe di Charlie Brooker.
Da allora Philomena Cunk è apparsa in altri contesti del genere mockumentary, tutti spassosissimi, da  Cunk on Christmas della BBC Two (2016) a Cunk on Britain (2018) e al monumentale (nell’intento) Cunk on Everything: The Encyclopedia Philomena, pubblicato da Two Roads nel novembre dello stesso anno. Nel periodo a cavallo della pandemia, a partire da fine  2019 Diane Morgan ha interpretato Philomena Cunk solo in brevi episodi ( Cunk and Other Humans, Antiviral Wipe).
Proprio in questi giorni, Diane Morgan è arrivata in Italia con la miniserie Cunk on Earth, in cui l’idea dei produttori di Philomena Cunk, trova davvero il suo trionfo. Philomena è un  personaggio della middle class inglese, una blogger di cupcake, che non solo si confronta con i grandi temi della scienza, ma sale sul podio del divulgatore scientifico. La parola Cunk, ad un anglofono suona come “irrimediabilmente incasinato” assolutamente adeguato a ciò che accade nel mockumentary: Philomena  intervista i grandi esperti (quelli veri) ponendo domande assolutamente sciocche tipo “dov’è il tempo in un orologio?
Vedere Diane Morgan nei panni del suo personaggio porre domande con un piglio di certezza granitica ad esperti e scienziati di ogni settore è uno spasso totale. Le scelte della produzione di caratterizzare un personaggio dotato di assenza di carattere le consente, praticamente, di confrontarsi con un numero infinito di questioni, uscendone invariabilmente a testa alta, esattamente come accadde con il terrapiattista che si confrontò con Umberto Guidoni, l’astronauta.
Fa ridere? Fino ad un certo punto. Se da un lato i mockumentary sono film o documentari fittizi che simulano un documentario serio ma che in realtà sono completamente inventati, il loro impianto riflette appieno quello dell’uomo comune che basa le sue certezze su internet e sui social network e che spesso crede a notizie false o esagerate che sono presentate come vere, e quindi basa le sue opinioni su informazioni errate.
Il parallelo tra i mockumentary e l’uomo comune che basa le sue certezze su internet e sui social network è evidente:  entrambi possono creare una realtà alternativa che sembra credibile ma che in realtà è inventata o esagerata. Se da un lato è vero che nei mockumentary la finzione è esplicita e creata per divertimento o satira, non sfugge certo che nel caso delle bufale su internet e sui social network, la finzione è  presentata come vera e quindi in grado influenzare le opinioni e le decisioni delle persone.
Il panorama della ricerca sul sociale vede diverse iniziative di analisi dell’origine della diffusione delle bufale su internet in correlazione con  la libertà di parola data dai social network. Tra gli elementi emersi, sicuramente  l’anonimato online e la velocità di diffusione delle informazioni su internet rendono facile per le persone creare e diffondere notizie false. A tutto ciò si aggiunge la notevole capacità dei social network e degli algoritmi di raccomandazione di amplificare la diffusione delle bufale e delle notizie false, principalmente grazie al fatto che entrambe tendono a mostrare agli utenti contenuti che corrispondono alle loro opinioni e interessi, producendo l’effetto avverso che questi non verificano la veridicità delle notizie.
Ci siamo occupati a più riprese dell’analfabetismo funzionale, cui si aggiunge l’analfabetismo digitale: diverse ricerche suggeriscono infatti che la diffusione delle bufale su internet e sui social network è correlata con questi due tipi di analfabetismo, contemporaneamente: molte persone non sanno come verificare la veridicità delle notizie che leggono online, sia perché non hanno capacità di riassumere le informazioni che recepiscono, sia perché non comprendono come funzionano gli algoritmi alla base dei social network.
A questo si aggiunge il fenomeno ben noto del bias cognitivo: le persone hanno la tendenza a credere alle notizie che corrispondono alle loro opinioni preesistenti, senza cercare fonti alternative, verificare i fatti e le proprie opinioni.
Abbiamo già affrontato il problema dell’analfabetismo funzionale in Italia e come questo fenomeno emerga sempre più chiaramente grazie all’uso dei social network. Secondo uno studio condotto dall’OCSE-Pisa nel 2008, un italiano su due, pur sapendo leggere e scrivere, è funzionalmente analfabeta, ovvero non è in grado di comprendere il significato di un testo e di riassumerlo in autonomia. Ciò comporta una difficoltà nell’acquisizione di nuove informazioni e una riduzione della rappresentazione del mondo esterno alla propria esperienza diretta. Questo problema ha ripercussioni sulla diffusione di informazioni false e sul quadro economico, sociale e politico del paese. Lo stesso fenomeno è riportato nello Human Development Report delle Nazioni Unite del 2009, dove l’Italia è al primo posto in Europa per la percentuale di analfabeti funzionali. Le stesse ricerche, ripetute negli anni successivi, hanno riportato esiti del tutto comparabili.
Philomena Cunk, personaggio interpretato dall’attrice comica inglese Diane Morgan, è una parodia di un’intervistatrice ignorante e confusa che cerca di capire il mondo e le sue complessità attraverso domande banali e superficiali. Questo personaggio è spesso utilizzato in programmi televisivi e mockumentary come strumento di satira e critica sociale.
Il parallelo tra Philomena Cunk e l’analfabeta funzionale che crede alle bufale sui social network sta nel fatto che entrambi cercano di acquisire conoscenza attraverso fonti superficiali e non affidabili, come ad esempio la propria esperienza diretta o informazioni non verificate che si trovano sui social media. Un fenomeno divenuto drammaticamente importante durante la pandemia, con migliaia di persone che hanno creduto  alle fake news, diffondendole.
Philomena Cunk utilizza un linguaggio semplice e immediato, basato su informazioni vaghe e incomplete, per cercare di capire il mondo, mentre l’analfabeta funzionale tende a credere alle informazioni che trova sui social network senza verificarne l’attendibilità o la provenienza. In entrambi i casi, questo comporta una riduzione della rappresentazione del mondo esterno alla propria esperienza diretta e una difficoltà nell’acquisizione di nuove informazioni.
La satira di Philomena Cunk e la critica sociale che essa veicola mettono in evidenza la pericolosità di affidarsi a fonti superficiali e non verificate per acquisire conoscenza, e invitano a una maggiore attenzione e verifica delle informazioni. Un parallelo che dovrebbe servire da monito per coloro che credono alle bufale sui social network, e magari spingerli non solo a verificare la veridicità delle informazioni prima di crederci ciecamente, ma anche a riconsiderare in toto il modo in cui prendono le proprie decisioni, spesso i basate su fonti del tutto inconsistenti.
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Non sono omofobo, ma: le ricerche sul linguaggio e frasi discriminanti

Avrete certamente visto cosa è accaduto durante il Festival di San Remo dopo il bacio tra Rosa Chemical e Fedez: sicuramente un effetto dirompente a più livelli, che ha addirittura visto minato il posto dei dirigenti RAI. Smaccata, in particolare, la asimmetria di rilievo che ha avuto quel bacio rispetto allo stesso dato tra persone di differente sesso, come ad esempio quelli di Morandi ed Amadaeus alle rispettive consorti.

A fare da eco a tutto questo le testate giornalistiche e, immancabilmente, i Social Network. Andando a leggere i commenti delle persone comuni, vale sicuramente la pena fare il punto sull’omofobia in Italia, sulle ricerche condotte sul campo e i relativi risultati. Un importante spunto di riflessione per comprendere come si manifesta l’omofobia e come riconoscerla nel frasario e nei comportamenti dell’italiano medio.

L’omofobia in Italia è un fenomeno diffuso che si manifesta in diverse forme, dal bullismo e discriminazione, fino alla violenza fisica. La comunità LGBTQ+ in Italia ha ancora molte sfide da affrontare per raggiungere l’uguaglianza e la piena accettazione nella società.

Numerose ricerche hanno esplorato l’omofobia in Italia negli ultimi anni, con particolare attenzione alle esperienze della comunità LGBTQ+. La ricerca condotta dal Gay Center nel 2020 ha rilevato che il 71% degli intervistati ha sperimentato almeno una volta nella vita un’offesa, una discriminazione o una violenza a causa della loro identità di genere o orientamento sessuale. Oltre i tre quarti (il 77%) degli intervistati ha affermato di aver subito pregiudizi o discriminazioni sul lavoro, mentre il 68% ha subito questi comportamenti durante il percorso scolastico.

Un’altra ricerca condotta da Arcigay ha mostrato che il 45% degli italiani ritiene che l’omosessualità sia una malattia o un disturbo psicologico, e il 41% la considera una scelta o una moda. Sono dati che indicano chiaramente una diffusa mancanza di conoscenza e la decisa necessità di sensibilizzazione sulla comunità LGBTQ+ in Italia.

Le ricerche evidenziano come l’omofobia si manifesti anche attraverso frasi comuni nell’italiano medio. Le ricerche citano a titolo di esempio, l’espressione “finocchio” (e varianti volgari) spesso utilizzata in modo dispregiativo per riferirsi a un omosessuale maschio, viceversa la parola “lesbica” è usata come insulto quando rivolta alle donne. Altre espressioni comuni includono “gay” e “omosessuale” utilizzati in accezione negativa o dispregiativa.

Per contrastare l’omofobia in Italia, le organizzazioni della comunità LGBTQ+ lavorano per aumentare la sensibilizzazione e l’educazione sul tema, con lo scopo di sostenere le vittime di discriminazione e violenza. E’ indubbio che la strada sia ancora piuttosto irta di difficoltà e che ci sia ancora molto lavoro da fare per raggiungere l’uguaglianza e la piena accettazione per tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere.

La ricerca applicata al sociale sulla omofobia che si manifesta nelle parole delle persone ha ampiamente dimostrato come una larga fetta di popolazione ammetta il bacio tra persone di sesso diverso ma non tra persone dello stesso sesso. Le stesse ricerche hanno approfondito in particolar modo i temi del linguaggio, studiando le frasi tipiche che vengono usate mediamente e come queste abbiano lo scopo di censurare le manifestazioni di affetto tra persone dello stesso sesso, adducendo come scusa il fatto che si tratti di tutelare il “decoro” o “l’ordine pubblico”.

E’ importante sottolineare che questa asimmetria del decoro, per cui è decoroso il bacio tra persone di sesso diverso e “indecoroso” o “sessualmente esplicito” quello tra persone dello stesso sesso, è al centro della definizione di Omofobia. Così, infatti, la Risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia in Europa (2006),

«L’omofobia si manifesta nella sfera pubblica e privata sotto forme diverse, quali discorsi intrisi di odio e istigazioni alla discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica, persecuzioni e omicidio, discriminazioni in violazione del principio di uguaglianza, limitazioni arbitrarie e irragionevoli dei diritti, spesso giustificate con motivi di ordine pubblico, libertà religiosa e diritto all’obiezione di coscienza».

Una ricerca che affronta il tema dell’omofobia nel linguaggio è stata condotta nel 2017 dal Gruppo Abele, un’associazione che si occupa di promuovere la cultura della legalità, dell’inclusione e della cittadinanza attiva. Lo studio si è concentrato sulle espressioni usate comunemente dalle persone per giustificare la loro disapprovazione delle manifestazioni di affetto tra persone dello stesso sesso.

Secondo i risultati di questa ricerca, la spia dell’omofobia nel linguaggio è nel “ma“:

“Non sono omofobo, ma non mi piace vedere due uomini che si baciano”

“Non ho nulla contro i gay, ma devono rispettare il decoro pubblico”,

“Non ho problemi con le lesbiche, ma non devono mostrarsi in pubblico”.

I Social Network, purtroppo sono letteralmente intrisi di queste espressioni, con l’aggravante del fatto che le persone che le utilizzano spesso affermano di non avere nulla contro le persone LGBTQ+ ma di voler in generale, tutelare il “decoro” o “l’ordine pubblico” quando si tratta di manifestazioni di affetto tra persone dello stesso sesso. Un atteggiamento che indica chiaramente una mancanza di comprensione e accettazione dell’amore tra persone dello stesso sesso e riflette un pregiudizio contro le relazioni omosessuali.

L’omofobia non è solo “coperta dal linguaggio”, anzi è spesso aperta: la ricerca condotta nel 2018 dall’Associazione Radicale Certi Diritti ha rilevato che il 68% degli italiani ritiene che le coppie omosessuali non abbiano gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. Inoltre, il 47% degli intervistati ha affermato che non approverebbe mai un bacio tra due persone dello stesso sesso in pubblico. Dati statistici che trovano ampio riscontro nel quotidiano, sia esso nel mondo reale o sui social network.

E’ indubbio che il panorama offerto dalle ricerche evidenzia la necessità di aumentare la sensibilizzazione e l’educazione sulla questione dell’omofobia e della discriminazione contro la comunità LGBTQ+ in Italia. Le sfide da affrontare per raggiungere l’uguaglianza e la piena accettazione per tutte le persone, indipendentemente dal loro orientamento sessuale o identità di genere sono tante.

E richiedono che, ciascuno di noi, inizi a lavorare su sé stesso.

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Paola Egonu e il monologo che ha riportato in auge il tema del razzismo in Italia

Il monologo di Paola Egonu ha riportato in auge un tema spinoso: il rapporto tra italiani e razzismo. Sappiamo come è andata, con plausi e critiche in egual misura. La nostra campionessa ha voluto condividere la sua esperienza personale con il razzismo e la diversità, a cuore aperto, descrivendo come si è sentita diversa e come ha capito che la sua diversità è anche la sua unicità. Paola ha usato la metafora dei bicchieri d’acqua per spiegare come, nonostante le apparenze, all’interno tutti siamo uguali, una metafora semplice ma che tocca la questione al suo centro. Ha raccontato di come ha dovuto affrontare momenti difficili, come l’essere accusata di vittimismo e, per estensione, di non avere rispetto per il suo paese. Tutto ciò, solo per aver mostrato le sue debolezze. Contemporaneamente la Egonu ha mostrato chiaramente il suo orgoglio nell’essere italiana e nell’indossare la maglia azzurra, sottolineando come le sfide perse e gli errori commessi non la rendano una perdente. Autorefenrenzialità? Non proprio: d’altronde, come ci ha ricordato a chiare lettere, non si è perdenti solo per un brutto voto a scuola nell’arrivare ultimi in una qualsiasi competizione o classifica.

Una cosa è certa,  ad una fetta di italiani non ha ben digerito il fatto di venire additati come razzisti. Esagerazione?

Di nuovo, non proprio: già nel 2018 abbiamo parlato della situazione del razzismo e della xenofobia in Italia. All’epoca, La Stampa ha pubblicato una inchiesta che mostrava un aumento preoccupante di reati a matrice razziale e xenofoba negli biennio 2016-2018, con un aumento del 560% dal 2009.

E se nel mondo reale il razzismo trovava chiaro spazio, le cose non andavano certo bene
sui Social Network: il Rapporto 2018 a cura dell’Osservatorio Vox sul razzismo e la xenofobia, riportava la preoccupante cifra di 73000 tweet contro i migranti, praticamente raddoppiati dal 2016. Insomma, un quadro del reale di diffusione e legittimazione del pericoloso mix di comportamento razzista ed ignoranza, aggravato dal ruolo dei Social Network.

Interessante che gli italiani non vogliano sentirsi definire razzisti, giustificando il proprio odio razziale con una generica “lotta alla delinquenza”, un modo per mascherare comportamenti che, all’atto pratico, sono apertamente razzisti. Una situazione che ha radici antiche, di cui ci siamo ampiamente occupati in diversi articoli lungo l’arco del tempo, i cui linl di approfondimento sono disponibili in calce a questo articolo.

Il fatto di fondo è che xenofobia e razzismo “vendono bene”, politicamente parlando. E vendono bene per un lungo arco temporale, una brandizzazione della divisione sociale che tiene e vende, e poco importa se a farne le spese siano meridionali o extracomunitari.

Va anche detto che a fare da contraltare c’è sempre una società civile che fa scattare i suoi “anticorpi culturali”, eppure in epoca social ciò non fa altro che alzare il tono da parte delle persone che mettono in atto comportamenti razzisti, i quali rispondono con una violenza di linguaggio che rappresenta certamente un segnale preoccupante.

Non stupisce, quindi, che nel 2022 le cose siano peggiorate, così la sintesi dello stesso Rapporto Vox, aggiornato allo scorso anno:

L’odio online si radicalizza, si fa più intenso, più polarizzato. Appare evidente il ruolo di alcuni mass media tradizionali nell’orientare lo scoppio di “epidemie” di intolleranza. Tra le categorie più colpite, le donne ancora al primo posto, seguite dalle persone con disabilità e dalle persone omosessuali, tornate, dopo anni, nel centro del mirino.

Numeri preoccupanti: nel 2022 al primo posto nel subire parole di odio sono le donne (43,21%), seguite da disabili (33,95%), omosessuali (8,78%), migranti (7,33%), ebrei (6,58%) e islamici (0,15%).

Così se da un lato abbiamo rapporti analitici che dimostrano chiaramente come in Italia esista effettivamente una emergenza razzismo ed intolleranza, non ultima la testimonianza di Paola Egonu, dall’altro abbiamo la aperta negazione del razzismo, esemplarmente rappresentata dalla risposta di Calderoli e Salvini: “L’Italia non è razzista, parole inopportune”.

Che le parole della Egonu per Calderoli siano inopportune lo possiamo capire, in considerazione che fu lo stesso Calderoli a scusarsi in parlamento dopo la condanna a 18 mesi per aver dato dell’orango alla Kyenge nel 2013.

Mai come nel caso del razzismo e della xenofobia la palla sta a noi, a tutti noi: il primo passo da compiere è di spezzare la catena di odio, nelle parole prima e – si spera – nei fatti poi.

-> Vai all’approfondimento rapporto Vox 2018

-> Vai al rapporto sul razzismo in Italia 2009

-> Vai al rapporto Vox 2022

(Immagine di apertura di Rai RadioTelevisione Italiana)

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