Bestemmiano in piazza: ricercati. Ma la legge è incostituzionale.

Il 3 aprile scorso, ha fatto scalpore la notizia del gruppo di giovani  “ricercati” dalla stazione di carabinieri di Pontecorvo, in provincia di Frosinone, per aver urlato bestemmie durante una processione religiosa. Un comportamento ovviamente deprecabile, che trova anche riscontro nel codice penale, per la precisione nell’Art. 724, per non parlare dell’ira, per la plateale blasfemia dei presenti alla cerimonia. Il comandante della stazione ha fatto acquisire le immagini delle telecamere di sicurezza per identificare i responsabili e comminare loro la sanzione prevista dalla legge.

Così recita l’Art. 724:

Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti. Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la divinità o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309.

La sanzione amministrativa è frutto della depenalizzazione ex art. 57, del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507. Ma ciò che rende la vicenda interessante è che l’Art. 724 del c.p. è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza del 18 ottobre 1995, n. 440, specificamente in relazione alle parole “o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato”.

Così la sentenza della Corte Costituzionale:

Massime relative all’art. 724 Codice Penale Corte cost. n. 440/1995 È costituzionalmente illegittimo l’art. 724, primo comma, del codice penale, limitatamente alle parole «o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato».

Vale a dire che la sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 724 del codice penale per violazione del principio di libertà di pensiero e di espressione sancito dall’Articolo 21 della Costituzione Italiana. Nella fattispecie, la sentenza ha stabilito che l’articolo 724 costituiva una restrizione ingiustificata alla libertà di espressione, in quanto puniva comportamenti che non arrecavano alcun danno effettivo a terzi e che, pertanto, non avevano una giustificazione sufficiente per giustificare una sanzione penale.

E’ interessante notare come la Corte abbia sottolineato che il reato di bestemmia e di manifestazioni oltraggiose verso i defunti è una norma obsoleta e non più in linea con l’evoluzione della società italiana e dei suoi valori culturali e religiosi.

Per quanto possa sembrare inviso ai più, la decisione ha rappresentato un importante passo avanti nella tutela dei diritti fondamentali degli individui e nella promozione della libertà di espressione in Italia. La dichiarazione di incostituzionalità di un articolo del codice penale che punisce la bestemmia e le manifestazioni oltraggiose verso i defunti, rappresenta un importante passo avanti nella promozione del principio di laicità dello Stato.

E’ bene ricordarlo, la laicità dello Stato si riferisce alla separazione delle istituzioni pubbliche dalle organizzazioni religiose, e alla promozione di una società in cui le diverse opinioni e credenze religiose sono rispettate e tutelate. In una società laica, lo Stato non può assumere posizioni in materia di religione, anzi è tenuto garantire la libertà di culto e di espressione per tutti i cittadini.

Una sentenza ampiamente in linea con i principi di laicità dello Stato proprio perché ha riconosciuto la libertà di espressione come un diritto fondamentale, sancendo il principio fondamentale di non interferenza dello Stato in questioni di natura religiosa.

La stessa sentenza ha anche sottolineato l’importanza di una società pluralista e inclusiva, in cui le diverse opinioni e credenze sono rispettate e tutelate. La criminalizzazione della bestemmia e delle manifestazioni oltraggiose verso i defunti rappresenta una forma di discriminazione nei confronti di coloro che non condividono i valori e le credenze della maggioranza religiosa.

Si, ma così le persone si offendono, dice l’uomo di strada. Anche su questo la sentenza ha preso una chiara posizione: la tutela dei sentimenti religiosi non può essere utilizzata come pretesto per limitare la libertà di espressione, a meno che non vi sia una giustificazione sufficiente e proporzionata. In una società laica, lo Stato non può assumere il ruolo di garante della morale e della religione, anzi, è tenuto piuttosto garantire la libertà di pensiero e di espressione per tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro convinzioni personali.

La posizione legale dei Carabinieri in questo scenario appare quindi piuttosto delicata, poiché dipende da una serie di fattori e circostanze da non sottovalutare. Sebbene l’Art. 724 sia ancora in vigore, è stato comunque dichiarato incostituzionale, per cui se dei ragazzi bestemmiano in pubblica piazza, questo costituisce “reato incostituzionale”, il che rende ampiamente discutibile l’intervento delle forze dell’ordine.

Una “scappatoia in corner” c’è: se il comportamento dei ragazzi è riconducibile al disturbo dell’ordine pubblico (arrecando fastidio alle persone presenti in piazza), i Carabinieri avrebbero titolo ad intervenire per ripristinare la tranquillità e garantire la sicurezza dei cittadini. In questo caso, l’intervento dei carabinieri può essere giustificato, ma non per la bestemmia in sé, quanto per il disturbo dell’ordine pubblico.

Un quadro scivolosissimo, in cui l’azione dei carabinieri va svolta nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, quali appunto la libertà di espressione e il diritto alla tutela della propria dignità, che apre a scenari in cui gli agenti si troverebbero ad utilizzare la forza in modo che può essere additato come sproporzionato o discriminante nei confronti di cittadini in base alle loro opinioni o credenze personali.

Una cosa è certa, la strada per la laicità dello Stato è ancora lunga da percorrere. Su tutte, una domanda: come mai l’Art. 724 è ancora in vigore, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale?

Foto di Apertura: Ansa

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Il nuovo codice degli appalti: semplificazione o assist per i corrotti?

La notizia di questa settimana che ha trovato grande rilievo, e suscitato qualche polemica, è relativa alla approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del nuovo codice degli appalti, noto come “Codice Salvini”, che mira a semplificare le procedure, ridurre la burocrazia e favorire la liberalizzazione nel settore. Ufficialmente, il nuovo codice prevede una maggiore digitalizzazione delle procedure e la creazione di una banca dati per le aziende coinvolte, al fine di evitare la presentazione ripetitiva di documenti.

Ma andiamo nel dettaglio, perché il nuovo codice introduce supposte semplificazioni che, invece, sono veri e propri grimaldelli per smontare il processo attuale che prevede controlli maggiori su tutta la catena.

La principale novità del nuovo codice è la liberalizzazione del sottosoglia, che permette di affidare direttamente gli appalti fino a 5,3 milioni di euro. Gli appalti fino a 150.000 euro possono essere affidati direttamente, mentre quelli fino a 1 milione di euro possono essere affidati tramite procedura negoziata senza bando, invitando fino a 5 imprese. La gara vera e propria rimane una possibilità residuale per i lavori più importanti.

Il nuovo codice prevede anche un taglio dei tempi per gli appalti fino a 500.000 euro, consentendo alle piccole stazioni appaltanti di procedere direttamente senza passare per le stazioni appaltanti qualificate.

Interessante la trovata della paura della firma per i funzionari pubblici e dirigenti: il nuovo codice permette la firma di contratti di appalto integrato e subappalti a cascata senza limiti. Sebbene preveda tutele addizionali per la annosa questione dell’illecito professionale, svincola completamente dalla responsabilità di controllo sulle catene di subappalti. Va da sé che un maggior numero di subappalti aumenta il rischio di incidenti sul lavoro per via del fatto che ogni subappaltatore ha margini sempre più stretti e, quindi, è costretto ad economizzare. C’è da aggiungere che ogni subappaltatore ha le proprie procedure di sicurezza e di formazione, non sempre allineate con quelle degli altri subappaltatori o del committente. Da qui il fatto che un maggiore numero di subappalti rende più difficile coordinare le attività sul cantiere, aumentando il rischio di incidenti (collisioni, sovrapposizioni nella esecuzione delle attività, etc).

Altrettanto furbesca è la intriduzione della figura del dissenso costruttivo, che trasferisce l’onere della decisione su chi si oppone a una scelta, obbligandolo a motivare il suo dissenso in modo “costruttivo”, appunto. In altri termini, se un ente o una figura coinvolta si oppone all’affidamento, ad esempio per pregressi fenomeni di corruzione, malversazione o altro, sta a chi fa opposizione dimostrare che ciò sia vero.

Già la sola liberalizzazione del sottosoglia è una vera e prorpia manna, che consente di affidare importi di lavori enormi con assoluta discrezione. Prima del nuovo decreto, i limiti di importo per l’affidamento diretto di servizi nel settore pubblico senza gara dipendevano, in caso di affidamento senza procedura di gara, dal tipo di servizio e della normativa applicabile.

In generale, la normativa italiana prevedeva l’affidamento diretto di servizi di importo inferiore a 40.000 euro (IVA esclusa) per i servizi di natura prevalente intellettuale e a 150.000 euro (IVA esclusa) per i servizi di natura prevalentemente materiale.

Va detto, però, che già in passato erano previste eccezioni, con specifiche disposizioni per alcuni settori e categorie di servizi, come ad esempio nel settore dei servizi sociali e delle forniture di beni e servizi di rilevanza strategica per la sicurezza nazionale, caso in cui limiti sono diversi e più elevati.

In Europa, i limiti di importo per l’affidamento diretto di servizi nel settore pubblico senza gara variano a seconda del paese e della normativa applicabile, in ogni caso ben lontani dalle soglie liberalizzate proposte dal nuovo decreto.

In Francia, il limite per l’affidamento diretto di servizi è di 90.000 euro per i servizi di natura prevalente intellettuale e di 144.000 euro per i servizi di natura prevalentemente materiale. In Germania, il limite è di 100.000 euro per i servizi di natura prevalente intellettuale e di 206.000 euro per i servizi di natura prevalentemente materiale. In Spagna il limite per l’affidamento diretto di servizi è di 15.000 euro per le amministrazioni locali e di 50.000 euro per le amministrazioni regionali e centrali. In Belgio, il limite è di 30.000 euro per le amministrazioni locali e di 85.000 euro per le altre amministrazioni pubbliche. In Finlandia, il limite per l’affidamento diretto di servizi è di 30.000 euro per le amministrazioni locali e di 100.000 euro per le altre amministrazioni pubbliche.

Nei paesi più avanzati (vale a dire con un minor tasso di corruzione e permeabilità delle organizzazioni criminali) non esiste invece un limite preciso per l’affidamento diretto di servizi nel settore pubblico senza gara: Regno Unito e Svezia, per citarne due. In questi paesi le amministrazioni pubbliche garantiscono la massima trasparenza ed adottano procedure competitive, pubbliche, paritetiche e non discriminatorie per l’affidamento dei servizi.

Il presidente di Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione), Giuseppe Busia, ha criticato il nuovo codice degli appalti approvato in Consiglio dei ministri, sostenendo che le nuove norme potrebbero limitare la trasparenza e aumentare il rischio di corruzione durante l’assegnazione dei lavori. Affermazione ovviamente osteggiata dalla Lega, che ha fatto quadrato intorno al nuovo codice sostenendo che “i sindaci non sono tutti corrotti”.

Ora, pur non occupandosi specificatamente dei sindaci, l’Indice di Percezione della Corruzione 2022, pubblicato da Transparency International, che misura il livello di corruzione nel settore pubblico di ciascun paese e assegna un punteggio da 0 (altamente corrotto) a 100 (molto trasparente e con bassa corruzione) è per noi di 56 su 100, in miglioramento rispetto agli anni precedenti ma ancora al di sotto della media europea.
Collocandolo in prospettiva di ranking mondiale l’Italia è al 47º posto su 180 paesi, inferiore a quello del Botswana, mentre siamo il fanalino di coda in Europa: 21º posto su 27 (nella mappa in rosso i paesi più corrotti e in giallo i meno).

-> Vai alla intervista di Busia su Repubblica.it
-> Vai a Trasparency International

 

Foto di apertura: Nanopress.it

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Stop alle trascrizioni dei figli nati da coppie dello stesso sesso: il punto

Si è molto discusso questa settimana sul fatto che il sindaco di Milano, Beppe Sala, è stato costretto a interrompere la registrazione all’anagrafe dei bambini nati da coppie dello stesso sesso, dopo il richiamo del Prefetto di Milano e del Ministero dell’Interno, in seguito ad una sentenza della Corte di Cassazione. Sala aveva iniziato a registrare certificati anagrafici con due genitori dello stesso sesso a luglio 2022, ma è stato costretto a interrompere questa pratica. In precedenza, aveva spiegato che la decisione di intervenire era stata presa in risposta alla mancanza di una legislazione adeguata per le famiglie omosessuali da parte del Parlamento e del governo, nonostante le sollecitazioni della Corte costituzionale. Con questo articolo facciamo il punto sul panorama legislativo europeo, ed introduciamo alcuni studi significativi in merito.

L’accettazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e la questione dell’adozione e del riconoscimento dei figli sono argomenti di grande rilevanza a livello internazionale e sono al centro di numerosi dibattiti politici, sociali e culturali. In Europa, la questione è stata oggetto di discussioni e di lente evoluzioni legislative negli ultimi decenni, con risultati molto diversi a seconda dei paesi e del loro grado di sviluppo, come mostra la immagine seguente (fonte: Wikipedia).

In alcuni paesi europei, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato legalizzato già da diversi anni. I primi paesi a riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso sono stati i Paesi Bassi nel 2001, seguiti da Belgio (2003), Spagna (2005), Svezia (2009), Norvegia (2009), Islanda (2010), Portogallo (2010), Danimarca (2012), Francia (2013), Regno Unito (2014), Lussemburgo (2015), Irlanda (2015), Finlandia (2017), Malta (2017), Germania (2017) e Austria (2019). In questi paesi, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato equiparato al matrimonio tra persone di sesso diverso in termini di diritti e obblighi.

In altri paesi europei, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è ancora stato legalizzato, ma sono state introdotte forme di riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Da noi, in Italia, è stata introdotta nel 2016 la figura delle unioni civili, che garantiscono alle coppie omosessuali una serie di diritti e di doveri simili a quelli del matrimonio. In altri paesi come la Repubblica Ceca, la Slovenia, la Croazia, l’Ungheria e la Slovacchia, sono state introdotte forme di riconoscimento legale delle coppie omosessuali, ma non ancora il matrimonio.

L’adozione da parte di coppie dello stesso sesso è stata legalizzata in molti paesi europei, ma non ancora in tutti. In molti paesi in cui il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato legalizzato, l’adozione è stata permessa dalle coppie omosessuali, come ad esempio in Belgio, Spagna, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Francia, Danimarca, Islanda, Norvegia e Germania. In altri paesi, come l’Italia, l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso è stata permessa solo in seguito all’approvazione delle unioni civili.

Il riconoscimento dei figli nati da coppie dello stesso sesso è stato un altro tema importante, spesso correlato alla questione dell’adozione. In molti paesi europei, i figli nati da coppie dello stesso sesso possono essere riconosciuti legalmente da entrambi i genitori, anche se non hanno il diritto di adottare. In altri paesi, come il Regno Unito e la Francia, i figli nati da coppie dello stesso sesso hanno gli stessi diritti dei figli nati da coppie di sesso diverso.

La ricerca in materia, dimostra che l’accettazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e della questione dell’adozione e del riconoscimento dei figli dipende da una serie di fattori, tra cui la cultura, la religione, la politica e la storia di ciascun paese. Tuttavia, sembra che i paesi europei più avanzati dal punto di vista sociale e culturale siano anche quelli più aperti ai diritti delle persone LGBT e più disposti ad adottare politiche progressiste in materia di diritti civili.un’influenza significativa sull’accettazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e sulla questione dell’adozione e del riconoscimento dei figli.

La tendenza generale dimostra che i  paesi europei più avanzati dal punto di vista sociale e culturale sono stati anche i primi a legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso e a riconoscere i diritti delle coppie omosessuali: Paesi come i Paesi Bassi, il Belgio e la Svezia, ad esempio, sono stati pionieri nella lotta per i diritti delle persone LGBT e hanno legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso già nei primi anni 2000. Questi paesi sono noti per essere progressisti e tolleranti, con una forte tradizione di diritti civili e di uguaglianza. Al contrario, paesi meno sviluppati dal punto di vista sociale e culturale, come alcuni paesi dell’Europa orientale, hanno spesso una maggiore resistenza al cambiamento e sono più lenti ad accettare i diritti delle persone LGBT.

Bisogna anche ricordare, però, che ci sono anche eccezioni a questa tendenza. Una di queste è rappresentata dalla Spagna che ha legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso già nel 2005, nonostante sia considerata meno avanzata di altri paesi europei dal punto di vista sociale e culturale. Anche l’Irlanda, che ha legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso nel 2015, ha dimostrato una forte volontà di cambiamento e di progresso, nonostante il passato conservatore e cattolico del paese.

In questo quadro articolato, non siamo ben messi: l’Italia è un paese che si è dimostrato molto lento nell’adottare politiche a favore dei diritti delle coppie omosessuali, rispetto ad altri paesi europei. Né il nostro paese brilla per aver un clima di accettazione dei diritti LGBT, tema in cui siamo praticamente fanalino di coda, come dimostrato da questa infografica di Liga Europe in cui il livello di accettazione dei temi LGBT è espresso  in valore percentuale (dove alla massima accettazione corrisponde il 100%).

Solo nel 2016, infatti, abbiamo introdotto le unioni civili per le coppie dello stesso sesso, che pur offrendo alcune delle stesse protezioni legali del matrimonio, sono state criticate per essere una soluzione di compromesso.  Abbiamo già trattato in questo blog il complesso iter che ha vissuto la Legge Zan (approfondimenti a fine articolo).

L’Italia non ha ancora legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, né ha esteso i diritti delle coppie omosessuali all’adozione o al riconoscimento dei figli. Un ritardo riconducibile a una serie di fattori, tra cui l’influenza della Chiesa Cattolica, che ha una forte presenza e influenza nella società italiana, ma anche una certa resistenza alla modernizzazione della società.

Va però detto che non è corretto affermare che il ritardo nel riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali in Italia sia solo il risultato di un minore sviluppo culturale o di un ritardo nello sviluppo del paese. Alcuni paesi con un alto grado di sviluppo culturale e sociale, come la Germania e l’Austria, hanno introdotto il matrimonio tra persone dello stesso sesso solo negli ultimi anni, mentre altri paesi con un livello di sviluppo simile all’Italia, come la Spagna, hanno legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso molto prima.

Riferimenti:

  • “Legal Recognition of Same-Sex Relationships in Europe: National, Cross-border and European Perspectives” di Kees Waaldijk, Pieter Cannoot, e Evert van der Vliet.
  • “Mapping LGBTI Equality in the EU” dell’agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali. 

-> Vai all’approfondimento sul DDL ZAN

-> Vai alla analisi interattiva sui diritti LGBT

-> Vai alla Rainbow Map su Liga Europe

 

Foto di apertura: fonte Ansa

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La correlazione tra immigrazione e sviluppo del paese ospitante

La questione dell’immigrazione è indubbiamente complessa essendo governata da una moltitudine di fattori, tra cui la dimensione e la composizione della popolazione del paese in questione, l’economia, la cultura e le politiche sociali. In questo articolo vogliamo focalizzarci sul rapporto che c’è tra il grado di sviluppo del paese ospitante, ovvero che riceve i migranti, e il tasso di immigrazione.

In generale, i paesi più sviluppati adottano un approccio equilibrato che tiene conto delle esigenze dei migranti e del paese ospitante come strategia di compromesso. In che modo? Mediante l’implementazione di politiche che promuovano l’integrazione dei migranti nella società ospitante, fornendo loro accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’occupazione. Allo stesso tempo, vanno messe in atto politiche per prevenire l’immigrazione illegale e combattere la tratta di esseri umani.

Parallelamente lo stato ospitante collaborara con altri paesi e organizzazioni internazionali per affrontare le cause profonde dell’immigrazione, come conflitti armati, povertà estrema, instabilità politica e cambiamenti climatici.

Non stiamo parlando di tenere i “porti aperti”, è infatti importante anche sviluppare politiche di immigrazione chiare e trasparenti, che rispettino i diritti umani dei migranti e delle loro famiglie, e che permettano di controllare il flusso migratorio in modo sostenibile per la società ospitante.

Il dato interessante nel panorama internazionale attuale è che c’è una correlazione tra il livello di sviluppo del paese ospitante e le politiche di integrazione dell’immigrazione. In altri termini, tanto più il paese ospitante è evoluto, tanto maggiore è il suo livello di integrazione degli immigrati e viceversa, come mostra chiaramente questo grafico che mette in relazione il tasso di immigrazione per 1000 abitanti e l’aumento medio del PIL.

Si badi bene che la lettura unidirezionale non è corretta: cioé non è vero che l’immigrazione aumenta perché il paese è più ricco, ne è vero il viceversa. I due fenomeni sono strettamente interconnessi. In altri termini, l‘immigrazione è un marcatore del livello di sviluppo del paese.

In generale, esiste una correlazione positiva tra il livello di sviluppo di un paese e le politiche di integrazione dell’immigrazione. Paesi con economie avanzate e ben sviluppate, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e i paesi dell’Unione Europea, hanno tradizionalmente sviluppato politiche di immigrazione più inclusivi e programmi di integrazione più ampi rispetto ai paesi in via di sviluppo.

Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i paesi più sviluppati hanno maggiori risorse a disposizione per fornire assistenza ai migranti e per sostenere i programmi di integrazione, nonché un sistema giuridico e istituzionale più forte per far rispettare i diritti dei migranti.

In letteratura, vari studi offrono diverse prospettive sul rapporto tra PIL e integrazione degli immigrati, con risultati che variano a seconda delle metodologie utilizzate e dei paesi considerati. Tuttavia, tutti questi studi concordano sul fatto che il PIL del paese è correlato all’integrazione degli immigrati, sia direttamente attraverso maggiori risorse per l’istruzione, la formazione e l’occupazione, sia indirettamente attraverso una cultura e una politica dell’immigrazione favorevoli all’inclusione.

Va anche detto che ci sono anche eccezioni al legame a doppio filo tra sviluppo ed immigrazione: alcuni paesi in via di sviluppo hanno adottato politiche di immigrazione progressiste e innovative, come l’Ecuador e l’Uruguay, che hanno creato programmi di cittadinanza e di integrazione per i migranti che sono stati accolti positivamente sia dai migranti che dai residenti.

Le complessità sono davvero molte, per citare giusto alcuni fenomeni connessi con il livello di integrazione degli immigrati potremmo citare le politiche specifiche adottate dal paese ospitante, oppure le attitudini e le opinioni della popolazione locale. A fare da contraltare all’esempio precedente, esistono paesi con un alto livello di sviluppo che adottano politiche restrittive sull’immigrazione o non investire sufficientemente nella promozione dell’integrazione dei migranti nella società ospitante. Due esempio eclatanti sono il Giappone e la Svizzera, il primo per avere una storia di discriminazione contro le minoranze etniche e du scarsa attenzione alla promozione dell’integrazione dei migranti, e il secondo per aver adottato una legislazione estremamente restrittiva.

Come osserviamo, la correlazione tra il livello di sviluppo del paese ospitante e la sua politica di integrazione degli immigrati non è lineare, ma dipende da una serie di fattori che possono influenzare la situazione. Mentre, in generale, si può dire che esiste una correlazione positiva tra il livello di sviluppo del paese ospitante e il livello di integrazione degli immigrati. Tuttavia, questo non è sempre il caso, poiché la situazione dipende da molti fattori, tra cui la politica dell’immigrazione del paese, la sua cultura e la sua economia.

I paesi più sviluppati tendono ad avere maggiori risorse e infrastrutture per accogliere gli immigrati e integrarli nella società ospitante. A corredo, tipicamente questi paesi hanno anche una cultura accogliente e una politica dell’immigrazione più progressista che promuove l’integrazione degli immigrati.

In questo quadro, l’Italia ha fatto progressi nella politica dell’immigrazione e nell’integrazione degli immigrati, ma ci sono ancora diversi problemi da affrontare. Tuttavia, il paese ha dimostrato una forte volontà di affrontare questi problemi e di migliorare la vita degli immigrati nella società italiana. Da un lato, l’Italia è un paese altamente sviluppato con una forte economia, un’importante cultura e storia, e una tradizione di accoglienza degli immigrati. Dall’altro lato, l’Italia ha affrontato diverse sfide nell’integrazione degli immigrati, tra cui la povertà, l’esclusione sociale, la discriminazione e la mancanza di infrastrutture e politiche adeguate.

Negli ultimi anni, l’Italia ha sviluppato una politica migratoria che cerca di equilibrare l’accoglienza degli immigrati con il controllo dei flussi migratori. Il paese ha adottato politiche che cercano di migliorare l’integrazione degli immigrati nella società italiana, come l’accesso all’istruzione e all’occupazione, e ha promosso programmi di formazione linguistica e culturale.

Sappiamo benissimo che, però, il nostro Bel Paese deve ancora affrontare alcune sfide per garantire una maggiore integrazione degli immigrati nella società italiana, come l’eliminazione della discriminazione, la promozione della diversità culturale e l’offerta di programmi di sostegno adeguati per gli immigrati.

Il nuovo governo, purtroppo, sta decisamente segnando un passo indietro in materia. Come sempre, sarà la Storia a giudicare.

Riferimenti:

  • “Does Economic Development Affect the Way Immigrants Integrate? New Evidence from the European Social Survey” di Anthony Heath, Ginda Steinnes e Sylvie Dubuc (2013), pubblicato su International Migration Review.
  • “Economic Development and Integration of Immigrants: An Empirical Analysis for Germany” di Tobias Heidland e Wido Geis-Thöne (2018), pubblicato su International Migration.
  • “The Link Between Economic Development and Immigrant Integration: An Exploratory Analysis of OECD Countries” di Valentina Mazzucato e Floris Peters (2016), pubblicato su International Migration.
  • “The Relationship Between Economic Development and the Integration of Immigrants: Evidence from Sweden” di Martin Klinthäll e Pieter Bevelander (2015), pubblicato su Journal of International Migration and Integration.

Nota: OECD è la sigla che identifica  i 38 Paesi OCSE

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Finché la barca va, lasciala andare ? Non proprio.

Il naufragio di Cutro, a Crotone, è stata indubbiamente una tragedia di grandi proporzioni,   che ha veramente lasciato il segno nell’opinione pubblica. Sappiamo la storia: il 28 febbraio un caicco carico di migranti provenienti dalla Turchia urta uno scoglio e si frantuma, il conto delle vittime è ad oggi in crescita, tra cui – purtroppo –  un numero di bambini che desideriamo non contare .

A fare da sfondo alla tragicità della vicenda, l’assurdo rimpallo di responsabilità del Ministero dell’Interno, e l’incredibile assenza di attività di soccorso in mare da parte della Guardia Costiera. Quella tragica notte, pur se l’imbarcazione era stata avvistata con larghissimo anticipo, a muoversi fu solamente la Guardia di Finanza. Che, proprio per le condizioni del mare che poi hanno portato al naufragio, dovette rientrare.

Emesso proprio all’inizio di quest’anno, il l del decreto legge n. 1/2023, che va ad associarsi al  decreto n. 130/2020, aveva posto addizionali limitazioni al soccorso in mare, con le prevedibili conseguenze infauste che abbiamo disgraziatamente osservato.

Ma, al di la delle considerazioni soggettiva, è bene fare il punto su cosa preveda la legislazione vigente. La legge internazionale sul soccorso e ricerca in mare è regolata principalmente dalla Convenzione internazionale sulle ricerche e il soccorso marittimo (SAR – Search and Rescue) del 1979, che stabilisce le responsabilità degli Stati costieri e degli equipaggi delle navi in caso di emergenza in mare.

In base a questa convenzione, ogni stato costiero ha l’obbligo di fornire il miglior soccorso possibile in caso di emergenza in mare, indipendentemente dalla nazionalità dell’imbarcazione in difficoltà. La legge prevede espressamente che tutti gli equipaggi delle navi hanno il dovere di prestare soccorso a qualsiasi altra nave o persona in mare in difficoltà, fintanto che ciò non metta in pericolo la sicurezza della propria nave o dell’equipaggio.

Nel caso in cui una barca sia in difficoltà anche se non chiede aiuto, l’equipaggio di altre navi presenti nella zona sono comunque tenuti a prestare soccorso, proprio perché il mancato intervento può causare una situazione di emergenza più grave.

In generale, l’obiettivo principale della legge internazionale sul soccorso e ricerca in mare è garantire la sicurezza e la vita degli individui in mare, e tutte le navi e gli stati costieri sono tenuti a fare il possibile per assicurare questo obiettivo.

Secondo il ministro Piantedosi, la nave non ha richiesto espressamente il soccorso, ma cosa dice la legislazione in materia di azione di soccorso anche in assenza di richiesta esplicita di soccorso ?

Il principio dell’obbligo di prestare soccorso anche in assenza di richiesta esplicita è sancito dall’Art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS – United Nations Convention on the Law of the Sea), che stabilisce che:

Ogni Stato adotta le misure necessarie per assicurare che le navi battenti la sua bandiera e le persone impiegate su di esse prestino assistenza a qualsiasi persona trovata in pericolo in mare. In caso di pericolo per la vita umana, la persona interessata ha il diritto di essere soccorsa, e ogni Stato adotta le misure necessarie per prevedere che le navi battenti la sua bandiera possano effettuare soccorsi senza alcuna discriminazione per motivi di nazionalità, bandiera, tipo o proprietà della nave o altra simile circostanza“.

Questo principio è stato inoltre ribadito nella convenzione SAR, che stabilisce l’obbligo di ogni Stato di coordinare e condurre operazioni di ricerca e salvataggio per garantire la sicurezza delle vite umane in mare, indipendentemente dalla nazionalità o dal tipo di nave coinvolta.

Ma cosa accadrebbe nel caso in cui uno stato non ottemperi al soccorso pur se la nave non lo ha richiesto e si verifica un naufragio con gravi perdite di vite umane?

La legge internazionale prevede sanzioni per gli stati che non rispettano l’obbligo di prestare soccorso in mare. In particolare, l’Art.94 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 stabilisce che:

Ogni Stato adotta le misure necessarie per assicurare che le navi battenti la sua bandiera e le persone impiegate su di esse prestino assistenza a qualsiasi persona trovata in pericolo in mare. Ogni Stato adotta, inoltre, le misure necessarie per perseguire e sanzionare la mancata osservanza dell’obbligo di prestare soccorso, anche in caso di naufragio o altra emergenza in mare“.

Di nuovo, anche la già citata Convenzione SAR prevede che gli stati che non rispettano le disposizioni della convenzione possono essere soggetti a sanzioni da parte degli altri stati e delle organizzazioni internazionali.

Se un naufragio con gravi perdite di vite umane si verifica a causa della mancata osservanza dell’obbligo di prestare soccorso, gli stati responsabili possono essere oggetto di indagini e perseguimenti giudiziari da parte delle autorità competenti, sia a livello nazionale che internazionale.

Il diritto internazionale parla chiaro: anche nel caso in cui uno stato abbia promulgato delle leggi contro la immigrazione clandestina, infatti la promulgazione di leggi contro l’immigrazione clandestina non può essere utilizzata come giustificazione per violare l’obbligo di prestare soccorso in mare. Proprio in virtù degli articoli visti precedentemente, tale obbligo è un principio fondamentale del diritto internazionale del mare, in base appunto alla Convenzione delle Nazioni Unite UNCLOS e alla Convenzione internazionale sulla SAR.

Secondo entrmabe le convenzioni, gli stati sono tenuti obbligatoriamente a  coordinare e condurre operazioni di ricerca e salvataggio per garantire la sicurezza delle vite umane in mare, indipendentemente dalla nazionalità o dallo status migratorio delle persone coinvolte. L’obbligo di prestare soccorso è una priorità rispetto ad altre considerazioni, come l’immigrazione clandestina. In pratica, gli stati non possono rifiutarsi di prestare soccorso a una nave in pericolo adducendo come motivazione l’immigrazione clandestina.

Lo stato che non rispetta l’obbligo di prestare soccorso in mare e che causa la morte di migranti può essere oggetto di sanzioni da parte degli altri stati e delle organizzazioni internazionali, che possono variare a seconda delle circostanze specifiche del caso e del grado di responsabilità dello stato.

Le conseguenze dal punto di vista del diritto internazionale sono tutt’altro che lievi: se venisse dimostrato che lo stato ha intenzionalmente ignorato le richieste di soccorso o ha impedito la prestazione di soccorso da parte di altre navi, potrebbe essere accusato di negligenza o addirittura di omicidio. In questi casi, gli altri stati membri possono chiedere una valutazione del comportamento dello stato in questione da parte della Corte internazionale di giustizia o di altre organizzazioni internazionali.

Al di là degli aspetti giuridici, la mancata osservanza dell’obbligo di prestare soccorso in mare costituisce una grave violazione dei diritti umani e del valore della vita umana. Le persone che cercano di attraversare il mare per raggiungere un luogo sicuro sono spesso in situazioni di estrema vulnerabilità e, come abbiamo purtroppo visto con il naufragio di Cutro e con l’ulteriore naufragio occorso durante la stesura di questo articolo, la mancata prestazione di soccorso porta a conseguenze tragiche.

-> Vai all convenzione delle Nazioni Unite

 

Foto di apertura: Ansa

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